Pignoramento stipendio basso: la Corte Costituzionale

PIGNORAMENTO STIPENDIO BASSO

SENTENZA N. 248 DEL 21/10/15 CORTE COSTITUZIONALE

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Pignoramento stipendio basso: i nuovi orientamenti della Corte Costituzionale. Con la sentenza 248 del 21 ottobre, depositata il 3 dicembre 2015, la Corte Costituzionale si è pronunciata circa la pignorabilità di un quinto dello stipendio particolarmente basso.

Anche nel caso in cui l’ammontare dello stipendio di un lavoratore dipendente debitore sia inferiore all’assegno sociale, vale il limite del quinto, in caso di pignoramento, a differenza delle pensioni.

Mentre la legge per le pensioni ha previsto l’impignorabilità della quota necessaria a soddisfare le minime esigenze vitali del pensionato debitore, per gli stipendi dei debitori, in caso di pignoramento della busta paga, non ha previsto alcuna tutela.

Di detta questione è stata pertanto investita la Corte Costituzionale, la quale ha però respinto il ricorso. A parere dei giudici, in estrema sintesi, uno stipendio è pignorabile nel limite del quinto e non del decimo, anche se minimale, derivante da attività lavorativa subordinata part-time e unica fonte di sostentamento del dipendente debitore. Essendo, infatti, il “quinto pignorabile” di fatto una percentuale, l’importo pignorato e restituito al creditore sarà tanto minore quanto più basso è lo stipendio, senza imporre al debitore eccessivi sacrifici.

Non è quindi negata, in ambito di pignoramento stipendio basso, in radice la pignorabilità degli emolumenti percepiti dal lavoratore debitore, ma unicamente attenuata per particolari casi individuati dal legislatore. Pignoramento stipendio basso.

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Di seguito il testo, in ambito di pignoramento stipendio basso, (visonabile anche cliccando qui) della sentenza 248 Corte Costituzionale – sentenza 21 ottobre – 3 dicembre 2015
Presidente Alessandro Criscuolo – Relatore Aldo Carosi

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, nel procedimento vertente tra C.D. e P.L. con ordinanza del 17 settembre 2014, iscritta al n. 36 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nella Camera di Consiglio del 21 ottobre 2015 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 17 settembre 2014, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari introdotte dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, che ha introdotto l’art. 72-ter (Limiti di pignorabilità) nel d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito).
1.1.– Riferisce il giudice a quo che la questione è sorta nell’ambito di una procedura esecutiva promossa dal C. D. ai danni della signora P. L., debitrice della somma complessiva di euro 10.513,13, oltre alle spese della procedura esecutiva.
Premette il Tribunale ordinario di Viterbo che il terzo pignorato, Poliedra s.r.l., in data 21 maggio 2014 ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere al debitore uno stipendio mensile di euro 474,00 (al netto delle ritenute previste dalla legge); quindi, poiché in base all’art. 545 cod. proc. civ. «Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito», ne deduce il Tribunale rimettente che lo stipendio dell’esecutata sarebbe pignorabile fino ad un quinto, ammontante nel caso di specie ad euro 94,80, per cui resterebbero alla debitrice euro 379,20, non risultando agli atti che la medesima disponga di altre fonti di sostentamento.
Al riguardo, osserva il Tribunale ordinario di Viterbo che se, invece, fosse applicabile alla fattispecie oggetto del presente giudizio il limite indicato dall’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, essendo la somma dovuta a titolo di stipendio inferiore ad euro 2.500,00 mensili, la stessa sarebbe pignorabile nel limite di un decimo e non di un quinto.
Evidenzia quindi il giudice a quo che la questione è rilevante nel giudizio in corso ai fini della decisione – adottabile anche ex officio – sulla impignorabilità assoluta del credito o sulla quantificazione dell’importo che potrà essere assegnato alla creditrice (un quinto od un decimo).
Secondo il rimettente, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 506 del 2002 la giurisprudenza prevalente avrebbe individuato alcuni parametri di riferimento (quali quelli dell’“assegno sociale” o del trattamento minimo di cui all’art. 38, commi 1 e 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002» ed all’art. 39, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003»). Tali importi sarebbero entrambi superiori allo stipendio percepito dalla debitrice (lavoratrice “part time”), sicché lo stipendio percepito sembrerebbe porsi ai limiti della mera sussistenza, tanto più che, – secondo il giudice a quo – il pensionato, a differenza del lavoratore, non dovrebbe sostenere le ulteriori spese di produzione del reddito. Pertanto, si prosegue, anche per il lavoratore dovrebbe essere individuato un minimo vitale indispensabile e non pignorabile, dato che, se la retribuzione venisse ridotta al di sotto di quel minimo, ne risulterebbe violato il precetto costituzionale di cui all’art. 36 Cost., il quale prevede che la retribuzione debba essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»; essa violerebbe inoltre gli artt. 1, 2, 3 e 4 Cost.
Il Tribunale ordinario di Viterbo riferisce di essere consapevole che la Corte costituzionale ha sempre respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ. sollevata in riferimento all’art. 36 Cost., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta della quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia (sono richiamate le sentenze n. 434 del 1997, n. 209 del 1975, n. 102 del 1974, n. 38 del 1970, n. 20 del 1968 e le ordinanze n. 491 del 1987, n. 260 del 1987 e n. 12 del 1977) ma, osserva il rimettente, tale orientamento sarebbe maturato in un contesto ben diverso da quello attuale, sia per quanto riguarda le modifiche normative introdotte sul regime delle pensioni e dei contratti di lavoro, sia per i mutamenti della giurisprudenza, più propensa a riconoscere identità di funzioni allo stipendio ed alla pensione, sia, infine, in ragione della grave crisi economica attuale, che determinerebbe un generalizzato impoverimento dei lavoratori dovuto alla esiguità degli stipendi, e dei salari minimi (per attività lavorative spesso precarie o svolte a tempo parziale), come sarebbe il caso dello stipendio percepito dalla debitrice. Per tali motivi, secondo il giudice a quo, la previsione contenuta nel quarto comma dell’art. 545 cod. proc. civ., laddove consente il pignoramento dello stipendio seppur nel limite del quinto, non apparirebbe più frutto di un razionale contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio, allorquando questo sia destinato in modo essenziale ed imprescindibile a garantire la sopravvivenza del lavoratore e la sua possibilità di svolgere le sue prestazioni lavorative.
Pertanto, il rimettente ritiene necessario un ripensamento, anche alla luce della nuova normativa in tema di pignoramenti per crediti tributari dello Stato (art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973): secondo il Tribunale ordinario di Viterbo tale novella introdotta nella materia dei pignoramenti per crediti aventi natura tributaria mostrerebbe la considerazione del legislatore per l’attuale congiuntura economica ed il diverso contesto normativo.
Per quanto sin qui esposto, il giudice a quo ritiene che la norma censurata contrasti con gli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 Cost. in quanto al cittadino lavoratore deve essere garantito che il frutto del suo lavoro, cioè il suo stipendio o salario, sia destinato, almeno nei limiti del minimo indispensabile, al soddisfacimento delle esigenze primarie di sopravvivenza proprie e della sua famiglia; diversamente ne risulterebbe violata sia la dignità del lavoro come fondamento stesso della Repubblica, sia il diritto al lavoro (in quanto lavorare potrebbe diventare economicamente non conveniente), sia il diritto a che la retribuzione percepita sia «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Secondo il rimettente il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) risulterebbe violato in relazione al diverso trattamento che riguarda il pensionato, il quale, non prestando più attività lavorativa riceverebbe una tutela della propria pensione (che potrebbe essere considerata anche come una retribuzione differita) diversa e maggiore di quella che riceve un lavoratore attivo.
Il principio di uguaglianza risulterebbe anche violato in relazione al diverso trattamento che riceve il debitore a seconda della natura del credito per cui si procede, laddove, per effetto della nuova disciplina di recente introduzione (art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973): infatti, quando il credito sia erariale – che, secondo il rimettente, per le ragioni di interesse pubblico che lo assistono dovrebbe ricevere un miglior trattamento – paradossalmente il debitore risulterebbe maggiormente tutelato rispetto ai casi nei quali siano portati in esecuzione crediti “comuni”.
Per tali motivi, il Tribunale ordinario di Viterbo, pur non ignorando i precedenti contrari di questa Corte, ritiene che le questioni proposte assumano i caratteri della novità.
2.– Ha svolto atto di intervento nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o comunque l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Osserva preliminarmente l’interveniente che il giudice remittente ha indicato, quali parametri di riferimento, una serie di norme costituzionali, ma non avrebbe tuttavia individuato lo specifico profilo di contrasto con la norma della cui costituzionalità si discute.
Nel merito ritiene la difesa erariale che le questioni siano infondate alla luce della precedente giurisprudenza di questa Corte, che avrebbe già affrontato in varie occasioni la medesima questione a partire dalla sentenza n. 20 del 1968, laddove era stata sottolineata l’esigenza di contemperare gli opposti interessi del creditore, ad ottenere la soddisfazione del proprio credito, e del debitore, a mantenere, comunque, un livello di vita accettabile (sono richiamate anche le decisioni n. 434 del 1997, n. 49 del 1976, n. 209 del 1975, n. 38 del 1970 e l’ordinanza n. 225 del 2002). Secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri il contemperamento tra tali opposti interessi dovrebbe intendersi riservato alla discrezionalità del legislatore e, al riguardo, proprio le varie discipline richiamate dal giudice rimettente confermerebbero le esposte considerazioni. Sotto tale profilo non sembrerebbe, quindi, che la Corte possa sostituirsi al legislatore in una valutazione della sufficienza della retribuzione riservata al legislatore.
2.1.– Con successiva memoria depositata in data 15 giugno 2015, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha ribadito le conclusioni già rassegnate ed ha rammentato ulteriormente che già la Corte ha affermato che, per i crediti retributivi, il limite del quinto per il pignoramento non è assoggettato al temperamento riconosciuto a garanzia del minimo vitale (sentenza n. 506 del 2002).
Per il resto, osserva ulteriormente la difesa erariale, il diritto alla salute del singolo e le particolari esigenze individuali dovrebbero essere assicurate ai non abbienti, o comunque ai soggetti bisognosi di cure o di prestazioni di particolare onere, attraverso gli istituti e gli strumenti dello specifico settore dell’assistenza sanitaria o dell’assistenza generale e non possono essere addossati, come obbligo costituzionalmente vincolante, a carico del generico creditore, portatore di un diritto ad una prestazione pecuniaria, accertata giudizialmente attraverso un titolo esecutivo.
Con riferimento, infine, alla prospettata disparità tra la regola del quinto dello stipendio, rispetto ai limiti di pignorabilità fissati dall’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, in materia di pignoramento dello stipendio per debiti tributari, in cui tali limiti vengono parametrati all’ammontare dello stipendio, osserva il Presidente del Consiglio dei Ministri che si tratterebbe di una norma di settore, rispetto alla quale, alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale richiamata, non potrebbe ritenersi l’incostituzionalità della disciplina generale in materia.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 della Costituzione.
Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., in quanto non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita.
Lo stesso giudice deduce anche la violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento sia in relazione al diverso regime afferente al pensionato, quale consolidatosi a seguito della sentenza di questa Corte n. 506 del 2002, sia, in via subordinata, in relazione al regime della riscossione dei crediti erariali fissato dall’art. 72-ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come introdotto dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44.
Il giudice a quo – nell’ambito di una procedura di pignoramento di crediti presso terzi lamenta che lo stipendio dell’esecutata, particolarmente esiguo (secondo la dichiarazione di quantità resa dal debitor debitoris – una società privata datrice di lavoro dell’esecutata, commessa impiegata part-time presso un supermercato – il credito aggredibile sarebbe pari ad euro 474,00, e quindi, a mente dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., il quinto aggredibile sarebbe pari ad euro 94,80) sia ritenuto impignorabile solamente per i quattro quinti ai sensi della disposizione censurata.
Secondo il Tribunale ordinario di Viterbo si dovrebbe estendere al pignoramento degli stipendi la ratio che avrebbe governato la sentenza n. 506 del 2002 di questa Corte, con la quale sarebbe stata riconosciuta la impignorabilità delle pensioni per l’intera parte indispensabile alle elementari esigenze di vita del pensionato.
Pur consapevole dei principi espressi da questa Corte circa la conformità dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ. all’art. 36 Cost., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità della quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia (ex plurimis, sentenza n. 434 del 1997), il giudice a quo ritiene che anche per gli stipendi dovrebbe valere un regime analogo a quello indicato dalla Corte per le pensioni. Diversamente, la previsione della pignorabilità di un quinto delle retribuzioni anche di basso ammontare, come nel caso di specie, si porrebbe in contrasto con le disposizioni costituzionali che esprimono un favor per il lavoro.
Per tali ragioni la norma censurata contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati, in quanto: non garantirebbe che lo stipendio del lavoratore sia destinato al soddisfacimento delle esigenze primarie di sopravvivenza proprie e della propria famiglia; violerebbe la dignità del lavoro come inteso nella Costituzione repubblicana; non sarebbe idoneo ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
Secondo il rimettente i principi di uguaglianza e di ragionevolezza risulterebbero violati poiché, nel caso di stipendi esigui, la previsione contenuta nell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ. non costituirebbe un razionale contemperamento dell’interesse del creditore con quello del lavoratore esecutato.
Inoltre, la disposizione censurata contrasterebbe con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza in relazione alla diversa e maggiore tutela spettante al pensionato.
Il principio di uguaglianza risulterebbe anche violato in relazione al diverso trattamento che riceverebbe il debitore a seconda del credito per cui si procede, tenuto conto della nuova disciplina di recente introduzione, in tema di pignoramenti per crediti tributari prevista dall’art. 3, comma 5, lettera b), del d.l. n. 16 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 44 del 2012, che ha inserito l’art. 72-ter (Limiti di pignorabilità) nel d.P.R. n. 602 del 1973. L’introduzione di un diverso meccanismo di pignorabilità dei redditi sino ad euro 2.500,00 netti (pari ad un decimo dell’importo, e non invece pari ad un quinto, come previsto dall’art. 545 cod. proc. civ.) evidenzierebbe, secondo il rimettente, una diversa considerazione del legislatore per l’attuale congiuntura economica in relazione alla solvibilità dei percettori di redditi esigui. Sarebbe irragionevolmente discriminatorio quindi che, quando il credito fatto valere in executiviis abbia natura erariale, il debitore risulti maggiormente tutelato rispetto ai crediti comuni.
2.– Preliminarmente, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 178 del 2015), deve essere rilevata l’inammissibilità delle censure apoditticamente rivolte alla norma impugnata in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost. L’ordinanza si limita, infatti, a menzionare detti parametri costituzionali, omettendo di fornire un’argomentazione esaustiva sulle ragioni del preteso contrasto con le norme invocate.
3.– Devono essere invece ritenute ammissibili le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost.
Ancorché esposte in modo non sistematico, le argomentazioni del giudice rimettente in ordine alla rilevanza delle questioni sollevate nella definizione del giudizio a quo superano il vaglio di ammissibilità. Egli ritiene la disposizione impugnata in contrasto con i parametri invocati secondo due ordini di ragionamento.
Nella prima prospettiva, dovrebbe essere comunque impignorabile la retribuzione esigua, quando non assicura al lavoratore mezzi adeguati alle esigenze di vita. Sotto tale profilo, il giudice rimettente fa leva soprattutto sull’art. 36 Cost.: in particolare sarebbe assolutamente prevalente la tutela del diritto a disporre di adeguati mezzi di sussistenza rispetto all’applicazione del principio della responsabilità patrimoniale.
Nella seconda prospettiva, la norma impugnata lederebbe il principio di eguaglianza in relazione a due tertia comparationis: in via principale viene richiamato il regime di impignorabilità dei crediti pensionistici come consolidatosi a seguito della sentenza n. 506 del 2002 di questa Corte e, in via subordinata, quello dell’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973 in materia di crediti erariali.
4.– Prima di passare al merito delle questioni così specificate è utile una sintetica ricostruzione, ai soli fini che qui interessano, del quadro normativo e giurisprudenziale inerente alla disciplina della pignorabilità dei redditi da lavoro e da pensione.
Secondo la previsione contenuta nel codice di rito civile, i crediti derivanti da rapporto di lavoro o di impiego sono pignorabili nella misura del “quinto” (art. 545 quarto comma, cod. proc. civ.) mentre, qualora concorrano più cause tra quelle indicate dall’art. 545 cod. proc. civ., il quinto comma, prevede che il pignoramento può estendersi sino alla metà.
Per quel che riguarda gli emolumenti da pensione, l’orientamento (invocato dal giudice rimettente) di questa Corte è nel senso che, pur mantenendosi il limite del quinto del percepito, debba essere sottratta al regime generale di pignorabilità la parte necessaria a soddisfare le esigenze minime di vita del pensionato (sentenza n. 506 del 2002). Questa Corte ha contestualmente affermato la non assimilabilità del regime dei crediti pensionistici a quelli di lavoro, precisando che «individuato il proprium del disposto dell’art. 38, secondo comma, Cost. nell’esigenza di garantire nei confronti di chiunque (con le sole eccezioni di crediti qualificati, tassativamente indicati dal legislatore) l’intangibilità della parte della pensione necessaria per assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita del pensionato, non ne discende automaticamente analoga conseguenza riguardo alle retribuzioni. […Ciò in quanto non] risulta incisa la ragione per cui, a proposito del regime della pignorabilità, questa Corte ha negato sussistere l’esigenza di una soglia di impignorabilità assoluta: da un lato, infatti, l’art. 38, secondo comma, Cost. enuncia un precetto che, quale espressione di un principio di solidarietà sociale, ha come destinatari anche (nei limiti di ragione) tutti i consociati, dall’altro, l’art. 36 Cost. […] indica parametri ai quali, […] nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, deve conformarsi l’entità della retribuzione, senza che ne scaturisca, quindi, vincolo alcuno per terzi estranei a tale rapporto, oltre quello – frutto di razionale “contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio” (sentenze n. 20 del 1968 e n. 38 del 1970) – del limite del quinto della retribuzione quale possibile oggetto di pignoramento» (sentenza n. 506 del 2002).
Ferma restando la specificità della situazione del pensionato, è stato comunque riconosciuto, nella stessa sentenza n. 506 del 2002, che l’individuazione dell’ammontare della parte di pensione idonea ad assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita rimane riservata, “nei limiti di ragione”, alla discrezionalità del legislatore.
Sotto quest’ultimo profilo è da sottolineare la recente novella legislativa contenuta nel decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2015, n. 132, recante integrazioni agli artt. 545 e 546 cod. proc. civ. In particolare l’art. 13, comma 1, lettera l), ha aggiunto all’art. 545 cod. proc. civ. la seguente prescrizione «Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge».
Proseguendo nell’excursus normativo e giurisprudenziale, è opportuno ricordare che i limiti di pignorabilità posti dall’art. 545, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., non valgono in caso di esecuzione concorsuale. In tale evenienza trova applicazione la normativa specifica contenuta nell’art. 46 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), la quale affida al giudice il potere di determinare l’eventuale devoluzione al fallito, con conseguente sottrazione all’acquisizione dell’attivo fallimentare, di una parte delle somme a lui dovute a titolo di stipendio o di pensione, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia.
Inoltre, l’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, come inserito dall’art. 3, comma 5, lettera b), del d.l. n. 16 del 2012 ed integrato dall’art. 52, comma 1, lettera f), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, dispone in tema di riscossione delle imposte sul reddito che «1. Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione in misura pari ad un decimo per importi fino a 2.500 euro e in misura pari ad un settimo per importi superiori a 2.500 euro e non superiori a 5.000 euro. 2. Resta ferma la misura di cui all’articolo 545, quarto comma, del codice di procedura civile, se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro. 2-bis. Nel caso di accredito delle somme di cui ai commi 1 e 2 sul conto corrente intestato al debitore, gli obblighi del terzo pignorato non si estendono all’ultimo emolumento accreditato allo stesso titolo».
Infine, il già citato art. 13, comma 1, lettera l), del d.l. n. 83 del 2015, ha aggiunto all’art. 545 cod. proc. civ. una ulteriore prescrizione afferente alla pignorabilità delle somme su conto corrente bancario o postale intestato al debitore, così formulata: «Le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge. Il pignoramento eseguito sulle somme di cui al presente articolo in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti dallo stesso e dalle speciali disposizioni di legge è parzialmente inefficace. L’inefficacia è rilevata dal giudice anche d’ufficio».
A ben vedere, il quadro normativo e giurisprudenziale del regime delle impignorabilità dei crediti afferenti a redditi esigui si presenta complesso a causa di molteplici fattispecie riferibili a situazioni giuridiche diverse, tra loro difficilmente comparabili e sostanzialmente disomogenee.
5.– Alla luce della premessa ricostruzione normativa e giurisprudenziale, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. non sono fondate.
5.1.– Con riguardo alla pretesa illegittimità della norma perché inidonea a garantire al lavoratore i mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, questa Corte ha già avuto modo di precisare (sentenza n. 20 del 1968) che lo scopo dell’art. 545 cod. proc. civ. è quello di contemperare la protezione del credito con l’esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa. La facoltà di escutere il debitore non può essere sacrificata totalmente, anche se la privazione di una parte del salario è un sacrificio che può essere molto gravoso per il lavoratore scarsamente retribuito. Con l’art. 545 cod. proc. civ. il legislatore si è dato carico di contemperare i contrapposti interessi «contenendo in limiti angusti la somma pignorabile [e graduando il sacrificio in misura proporzionale all’entità della retribuzione]: chi ha una retribuzione più bassa, infatti, è colpito in misura proporzionalmente minore. Perciò non è vero che siano state “parificate” situazioni diverse, né si può ritenere arbitraria la norma impugnata sol perché non ha escluso gli stipendi e i salari più esigui» (sentenza n. 20 del 1968; in seguito, anche sentenze n. 102 del 1974 e n. 209 del 1975, nonché ordinanze n. 12 del 1977 e n. 260 del 1987).
La scelta del criterio di limitazione della pignorabilità e l’entità di detta limitazione rientrano, per costante orientamento di questa Corte, nel potere costituzionalmente insindacabile del legislatore (ex plurimis, ordinanza n. 225 del 2002).
È stato anche affermato essere conforme a Costituzione l’assoggettamento della «retribuzione, da qualsiasi lavoratore percepita, [alla] responsabilità patrimoniale quale “bene” sul quale qualsiasi creditore può, nei limiti di legge, soddisfarsi» (sentenza n. 506 del 2002). Conseguentemente, è sempre stata respinta la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 36 Cost., dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. Civ., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità della quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia (sentenze n. 434 del 1997, n. 209 del 1975, n. 102 del 1974, n. 38 del 1970, n. 20 del 1968 e ordinanze n. 491 del 1987, n. 260 del 1987 e n. 12 del 1977).
Non appare nuovo sotto questo profilo l’argomento del rimettente secondo cui l’incipiente crisi economica e l’evoluzione normativa e giurisprudenziale comporterebbero il superamento della costante giurisprudenza di questa Corte. Anche dopo la sentenza n. 20 del 1968 è stato ribadito che non può essere mosso al legislatore il rilievo di non aver tenuto conto, nella disciplina dell’art. 545 cod. proc. civ., dell’ipotesi «in cui per effetto del pignoramento e nonostante i limiti di impignorabilità che sono fissati, la retribuzione scenda al di sotto di un determinato livello e non assicuri al debitore il minimo indispensabile per vivere. Resta il fatto in sé, ed è ben possibile che esso si verifichi specie quando la retribuzione sia bassa, ma trattasi di un inconveniente che, per quanto socialmente doloroso, non dà luogo all’illegittimità costituzionale della normativa de qua» (sentenza n. 102 del 1974) proprio in ragione della esigenza di non vanificare la garanzia del credito. Si deve considerare che la ratio della limitazione posta all’espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente prevista nell’art. 545 cod. proc. civ. – che, come tale, costituisce un limite legislativo alla generale responsabilità patrimoniale del debitore inadempiente prevista dall’art. 2740 del codice civile – trova il suo fondamento nel fatto che nella generalità dei casi il lavoratore dipendente trae i mezzi ordinari di sostentamento per le necessità della vita da un’unica fonte, facilmente aggredibile, «con ciò intendendo però stabilire soltanto dei limiti ad un particolare mezzo di esecuzione ma non certo introdurre una deroga al principio della responsabilità patrimoniale, la quale resta pertanto piena ed illimitata» (sentenza n. 580 del 1989).
Fermo restando l’orientamento di questa Corte (che il rimettente peraltro dimostra di conoscere) per cui non esiste un parallelismo tra la pignorabilità delle retribuzioni e quella delle pensioni, anche nella sentenza posta dal rimettente a fondamento di una soglia di impignorabilità assoluta, questa Corte ha sancito che debba essere comunque previsto un minimum «il cui ammontare è ovviamente riservato all’apprezzamento del legislatore (così la sentenza n. 22 del 1969)» (sentenza n. 506 del 2002).
Con riferimento, poi, al rischio paventato dal rimettente che l’aggressione – seppur limitata – dei redditi “esigui” possa compromettere irrimediabilmente la loro capacità di consentire il reperimento dei mezzi minimi indispensabili per vivere, la Corte ha affermato, in un caso ancor più significativo, in cui l’art. 545 cod. proc. civ. era stato impugnato in riferimento all’art. 32, primo comma, Cost. (nella parte in cui predetermina la pignorabilità dello stipendio o salario nella misura di un quinto e non ne affida, invece, l’importo alla discrezionalità del giudice), che «il diritto alla salute del singolo e le particolari esigenze individuali devono essere assicurate ai non abbienti, o comunque ai soggetti bisognosi di cure o di prestazioni di particolare onere, attraverso gli istituti e gli strumenti dello specifico settore dell’assistenza sanitaria o attraverso quelli dell’assistenza generale e non possono essere addossati, come obbligo costituzionalmente vincolante, a carico del generico creditore, portatore di un diritto ad una prestazione pecuniaria, giurisdizionalmente accertato attraverso un titolo esecutivo» (ordinanza n. 225 del 2002).
In sostanza, la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore.
5.2.– Quanto alle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, le argomentazioni del giudice rimettente non possono essere condivise, in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata.
In primis non può essere esteso ai crediti retributivi – come pretenderebbe il rimettente – quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 506 del 2002 con riguardo alla pignorabilità delle pensioni: proprio detta sentenza – come già rilevato – esclude la estensibilità della fattispecie ai crediti di lavoro per la diversa configurazione della tutela prevista dall’art. 38 rispetto a quella dell’art. 36 Cost. Non è rilevante, in proposito, la richiamata sopravvenienza del d.l. n. 83 del 2015, il quale assimila la pignorabilità di stipendi e pensioni nel solo caso di somme accreditate su conto corrente bancario o postale.
A maggior ragione non può costituire tertium comparationis l’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973 nella vigente formulazione, il quale riguarda l’ancor più eterogenea fattispecie inerente alla riscossione coattiva delle imposte sul reddito.
In definitiva, proprio la precedente ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale afferente alla impignorabilità dei crediti evidenzia un contesto di rilevante differenziazione, per di più in fase espansiva alla luce delle fattispecie normative più recenti le quali si discostano, non solo da quella impugnata, ma anche da quelle richiamate quali tertia comparationis dal rimettente.
Ciò è inconfutabile indizio del fatto che – nell’ambito delle soluzioni costituzionalmente conformi, cioè caratterizzate dal bilanciamento tra le ragioni del credito e quelle del percettore di redditi di lavoro esigui – il legislatore sta esercitando la sua discrezionalità in modo articolato, valorizzando gli elementi peculiari delle singole situazioni giuridiche piuttosto che una riconduzione a parametri uniformi.
La disomogeneità delle situazioni sulla base delle quali è stato instaurato il giudizio emerge dunque da un esame obiettivo del contesto normativo complessivo e dalla sua evoluzione differenziata. Se il principio di eguaglianza implica un favor nei confronti di discipline quanto più generali possibili (sentenza n. 264 del 2005), è altresì innegabile che il giudizio di coerenza ex art. 3 Cost. deve essere svolto per linee interne alla legislazione e che, in tale prospettiva, gli elementi addotti dal rimettente non consentono di inquadrare la scelta del legislatore sotto il profilo della disparità di trattamento.

Per Questi Motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, sollevata in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 3 dicembre 2015.

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Autore. Europol Investigazioni SRL – Titolo –Pignoramento stipendio basso: la Corte Costituzionale-, in www.europolinvestigazioni.com

 

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